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sabato 14 aprile 2012

Una buona tazza di tè – Christopher Bush (Polillo 2012)


...e c’è un’altra cosa che dovrei dirle. In sala professori si era effettivamente discusso di uccidere Twirt, e proprio in quel modo

Inutile dire che la regola aurea di qualsiasi buon giallo degno di questo nome prevede che l’identità dell’assassino rimanga celata fino alle ultimissime pagine. Questo a meno che non si tratti di una cosiddetta “inverted story” in cui il lettore conosce fin dall’inizio l’identità del colpevole e il gioco consiste nel vedere in che modo verrà smascherato dal detective. Discorso diametralmente opposto invece per la vittima. Questa naturalmente deve comparire possibilmente fin dai capitoli iniziali (almeno la prima, con la speranza maligna che faccia da apripista a parecchie altre). Inoltre, a meno che il morituro faccia già il suo ingresso nella storia già bello e stecchito, il lettore particolarmente dotato di fiuto investigativo, a partire quasi dalle primissime pagine, dovrebbe già essere in grado di dare un volto al personaggio che verrà successivamente fatto fuori. E’ infatti cosa risaputa e acclarata che nelle storie gialle compaiono costantemente svariate categorie di soggetti che vivono piuttosto pericolosamente. Vengono immediatamente in mente, per esempio, frotte di zii ricchissimi, di ambo i sessi, che si frappongono in maniera del tutto “sconsiderata” tra una cospicua eredità e le più che “comprensibili” aspirazioni ad una vita di dolce far niente da parte di un nugolo di parenti nullafacenti e nulla volenti fare.
Ovvero, coniugi ingombranti ( e normalmente pure ricchi, il che non guasta affatto) che “egoisticamente” impediscono alla propria dolce metà di coronare il sogno di trascorrere il resto dell’esistenza con quella che, strada facendo, hanno scoperto essere la loro vera anima gemella, notevolmente più giovane (quando si dice la combinazione) di quello o quella (anche in questo caso il sesso è indifferente) che nel frattempo è diventato/a nient’altro che un inutile impiccio da eliminare. E molte altre categorie a seconda delle storie raccontate. Il trapassato può essere simpatico ( in questo caso il colpevole sarà destinato a patire in eterno il fio della nostra inflessibile condanna) o particolarmente odioso (e quindi magari l’assassino alla fine avrà dalla sua, se non il nostro tifo, almeno la nostra solidarietà). Raramente però, in una storia gialla, qualcuno ha riscosso tale serie di entusiastici e plenari consensi quale candidato all’assegnazione del ruolo di “futura vittima” e quindi, in quanto tale, facilmente individuabile da parte del lettore-segugio medio, come il professore Twirt, che qui troviamo, nel 1934, recitare (per poco) la parte di tirannico e borioso preside della Woodgate Hill Country School di Londra. I giudizi su di lui da parte di docenti e dipendenti vari sono pressoché unanimi. Il professor Castle, nei suoi pensieri era solito riferirsi a lui chiamandolo “bastardo”. Sostanziale convergenza di vedute, con sottili e dovute precisazioni, da parte degli altri attori del dramma. Per Vincent, il custode della scuola, era infatti piuttosto uno “sporco bastardo”.
Per l’istruttore Tangent invece era un “maledetto bastardo”. Mr. Furrow lo giudicava , chissà perché, “un bastardo di un imbroglione”. Un po’ fuori dal coro mister Godman che riteneva il defunto “la persona più schifosa e detestabile” che gli fosse mai capitato di conoscere. Non molto da meno le “ladies”. Miss Gadge si limitava ad “odiare a morte” Twirt. Mentre miss Holl, in maniera molto più prosaica, lo riteneva “un sudicio topo di fogna”. Tutto questo, naturalmente parlandone da morto. Al perspicace lettore-segugio viene subito da pensare: “uno così non arriva neanche a pagina 40”. E infatti, come volersi dimostrare, a pagina 36 succede il fattaccio. E questo è comprensibile. Il problema è che fin dalla prima pagina qualcuno ha avvelenato il pacifico professor Charles Tennant e questo spariglia tutta la faccenda. Questi infatti era tutto il contrario dell’odiato preside: “lui era benvoluto da tutti. Non si poteva far altro che volergli bene”. Ma allora perché è morto Tennant? Chi l’ha ucciso e chi ha fatto fuori il detestato mr. Twirt?
Le indagini vengono affidate al sovrintendente George Wharton di Scotland Yard. Ma sarà l’amico di questi, il detective dilettante Ludovic Travers, smontando e rimontando gli alibi di tutti i personaggi come un gioco di costruzioni, illuminato dalla rappresentazione di “Sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare, a scoprire la vera identità del colpevole.
Al pari del precedente “Omicidio a capodanno” – Bassotto n. 75, anche questo romanzo rappresenta un classicissimo parto della cosiddetta “scuola realista”, quella fondata da Freeman Wills Crofts (“Il volo delle 12,30 da Croydon” – Bassotto n. 8 ) nel 1920 con la pubblicazione de “I tre segugi” (pietra miliare del genere che consiglio caldamente) che contrappone al detective “macchina pensante”, infallibile e dalle intuizioni geniali, proprio di Agatha Christie, John Dickson Carr e Ellery Queen per intenderci, il detective “piedi piatti”, se vogliamo un po’ più credibile, che si sbatte da un posto all’altro alla ricerca di indizi e prove tangibili, quali impronte digitali, tracce di pneumatici, segni di scarpe e procede smontando pezzettino per pezzettino alibi che parevano inattaccabili.
Largo uso quindi di tabelle di orari, schemi di eventi e diagrammi per ricostruire i fatti in quanto lo scopo primario di ogni buon “piedi piatti” che si rispetti è quello di stabilire se il tal personaggio era in un certo posto o stava facendo la qual cosa esattamente ad una certa ora e minuto primo. Noi lettori veniamo quindi informati molto onestamente che alle ore 15,50 mr. Godman è sceso per la prima volta in cortile , alle ore 15,52 mr. Twirt entrava dal cancello e alle ore 15,58 né un minuto prima né un minuto dopo sia ben chiaro, mr. Godman è ridisceso per la seconda volta in cortile. Quindi Twirt è sicuramente stato assassinato nei 6 minuti compresi tra le 15,52 e le 15,58. Per tale intervallo di tempo naturalmente ciascun personaggio dispone di un alibi di ferro e quindi nessuno può aver ammazzato il preside.
La soluzione, come negli altri romanzi appartenenti al medesimo filone (vedere, oltre al grande Crofts, per esempio J. J. Connington, “Assassinio nel labirinto” - Bassotto n. 27 , “Il caso con nove soluzioni” - Bassotto n. 60 e, in pubblicazione il prossimo mese di maggio nella medesima collana, “Otto innocenti e un colpevole” o i romanzi di Henry Wade) si svela piano piano, pagina dopo pagina, piuttosto che essere tenuta in serbo per il capitolo finale. Già quando mancano venti - trenta pagine al termine, partecipando noi in presa diretta alle indagini e avendo modo di condividere i reconditi pensieri dei due investigatori, possiamo intuire l’identità del colpevole.
Ad essere onesti, Christopher Bush scrive con un ritmo non proprio forsennato e i suoi romanzi rispetto ai grandi nomi sopra menzionati sono piuttosto statici nell’azione. Il livello comunque è sicuramente medio - alto: non mancano i classici colpi di scena, le classiche piantine del luogo del delitto, (anzi si sprecano: 2 delitti, 2 piantine), i classici diagrammi degli alibi e le classiche tabelle dei movimenti dei vari personaggi. Un romanzo classico quindi, in tutte le sottili sfumature del termine. Classico nel significato di “tradizionale”, radicato nel passato. Classico nell’accezione di “intramontabile” proiettato nel futuro. Classico nel senso di “eterno”, ponte tra passato e futuro. Classico insomma….come un buon libro gustato con una buona tazza di tè…..

Articolo di Alberto "allanon" Cottini

Dettagli del libro

  • Titolo: Una buona tazza di tè
  • Autore: Chistopher Bush
  • Titolo originale: The case of the dead shepherd / The tea tray murders (1934)
  • Traduttore: Dario Pratesi
  • Editore: Polillo Editore
  • Collana: I Bassotti n. 109
  • Anno di pubblicazione: febbraio 2012
  • Pagine: 288
  • Prezzo: euro 14,90

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