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martedì 15 marzo 2011

Detectives! 2 - Fabio Lotti


Vista la buona accoglienza del primo articolo (non ho ricevuto lettere minatorie) ecco il secondo scritto sempre a braccio, raccogliendo alcuni pezzi sparsi in qua e là e facendo perno su una lucidissima (autoironia) memoria. Una cosetta semplice per rendere la lettura più scorrevole. Da ringraziare, soprattutto, l’editore Polillo che ci ha fatto riscoprire tanti piccoli tesori.
“La passione per il giallo l’ho avuta sin da piccolo quando, frugando per caso in una cantina di un mio cugino, mi ritrovai fra le mani una avventura di Perry Mason pubblicata dalla Mondadori sulla cui copertina campeggiava il volto del noto attore americano Raymond Burr (molti lo ricorderanno come uno dei protagonisti de “La finestra sul cortile” di Hitchcock, quello che ha fatto la felicità di tanti depressi mariti tagliando a pezzi la moglie) che è stato uno degli interpreti principali, se non l’unico, di questo popolare avvocato creato dalla penna di Erle Stanley Gardner”. L’ho scritto talmente tante volte che non mi pare nemmeno vero (ora ho addirittura qualche dubbio). Comunque più che dal personaggio libresco sono stato colpito da quello televisivo, interpretato proprio dall’attore sopraccitato. E anche dall’ambiente. Per un ragazzotto ignorantotto abituato ai vicoli di paese e alle case modeste (magari senza il water) le aule dei tribunali e gli uffici degli avvocati esercitavano un fascino irresistibile, quasi una morbosa curiosità unita ad una sorta di timida soggezione. A bocca spalancata insieme ad altri delinquentelli per seguire i dibattiti accesi fra l’accusa e la difesa e gli scontri con il procuratore distrettuale Hamilton Burger, al bar del prete o al bar “Italia” (Don Camillo e Peppone), tra il fumo e qualche rutto improvviso che si spandeva fragrante nell’aria. Presi pure, diciamolo, dalle grazie rotonde di Della Street verso cui non mancavano risatine varie, fischi di apprezzamento e perfino proposte da bunga bunga (senza sborsamento di sghei, però). Diversi anni più tardi gli attori, tutti imbolsiti sciuparono un po’ il mito…(peccato).
Se sono rimasto ammaliato dalle incredibili deduzioni di Holmes con l’occhietto attento e vispo, figuriamoci di fronte a quelle di un investigatore cieco come Duncan Maclain di Baynard Kendrik, che deve sfruttare al massimo gli altri sensi. Qualche spunto personale. Cieco da più di vent’anni per un incidente mentre era in servizio durante la prima guerra mondiale, passo sicuro e scattante come la mente ma malinconico dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor e la perdita dell’amico più intimo. Capelli neri e crespi, personalità magnetica senza compromessi, qualche buona tirata di sigaro. Abile con le mani “Sybilla rimase a osservarlo affascinata quando lui prese da un cassetto un puzzle di cinquanta pezzi e lo posò sulla scrivania. Le dita affusolate del capitano si muovevano più velocemente dello sguardo di lei, tastando e scartando i vari pezzi”. Ha un servitore di nome Cappo ed un cane femmina di nome Schnucke (mi ricordo anche di un cane piuttosto feroce). E’ metereopatico dato che “i capricci del tempo esercitavano una forte influenza” su di lui (non solo su di lui…). La ricompensa per un uomo che non può vedere sono le semplici cose della vita “E il pericolo. La sfida. L’incessante battaglia combattuta col cervello contro uomini in possesso di occhi perfettamente funzionanti. E la vittoria. Ogni tanto si arrabbia ma gli passa subito”. In un libro, ripubblicato di recente da cui ho tratto qualche frase sopraccitata, tira fuori una serie di deduzioni alla Sherlock Holmes, per spiegare perché il sig. Courtney ha un braccio rotto o slegato.
Seguitelo ”Io non ci vedo ma tutti gli altri sensi sono stati costretti a lavorare il doppio. Lei ha tirato fuori dal cappotto solo un braccio quando la signorina Sprague l’ha aiutato a sfilarselo nell’ingresso. Il suo passo era irregolare quando è entrato qui dentro-indicazione infallibile di una contrazione muscolare, anche nei casi in cui la lesione è a una spalla o a un braccio. Poi si è voltato di lato per darmi una man, un movimento istintivo allo scopo di proteggere il braccio infortunato. Infine c’è la questione dei dolori, signor Courteney. Le sue bende hanno un odore ben preciso. Quanto all’udito, il rumore della seta che sfregava contro il tessuto di lana del suo abito, ogni volta che lei si muoveva, era un altro chiaro indizio, e gli uomini di solito non portano camicia di seta”. La mi’ nonna! Figuriamoci se ci avesse visto…
Parto dall’autore, anzi dall’autrice. Da Elizabeth Daly. E non perché sia stata la scrittrice americana (1879-1967) preferita da Agatha Christie, e già questo, comunque, costituirebbe un discreto viatico, ma perché solo nel 1940, a sessanta anni suonati, pubblica il suo primo romanzo. Come a dire che c’è speranza per tutti (oggi c’è speranza anche per gli ultra novantenni). Elizabeth nasce a New York da una ricca e potente famiglia, il padre è addirittura giudice alla corte suprema della città e lo zio commediografo, regista e produttore teatrale. Si laurea alla Columbia University, insegna per alcuni anni nello stesso College che ha frequentato da studentessa, si dedica al teatro ed infine, come ho detto, si butta sul giallo dopo essersi esaltata alla lettura di Wilkie Collins.
In poco tempo sforna un bel po’ di romanzi che hanno come protagonista principale Henry Gamadge, giovane sui trent’anni, grande esperto di libri e manoscritti antichi e, a tempo perso, investigatore dilettante. Pochi accenni. Fuma (abbastanza), beve all’occasione (whisky con soda), allegro, divertente, “Gamadge si sforzò di vivacizzare un po’ la festicciola…Versò cocktail, distribuì tartine e tentò di introdurre una nota di frivolezza nell’intero procedimento”. Consapevole delle sue capacità “Il mio è un tipo di cervello estremamente seccante, sa, continua a rimuginare su una questione quando menti meno importune sono pronte a lasciar perdere già da tempo”. Con un pizzico di vanità. Rivolto ad un personaggio “Ne sai quanto me, quindi puoi trarre le mie stesse conclusioni…se il tuo cervello funziona come il mio”. Forse, più che un pizzico…
Ogni tanto la sua mente vaga per conto suo “Gamadge era appoggiato allo schienale della poltrona, le gambe accavallate, e dalla sua sigaretta si alzava una tremula spirale azzurrina che poi si trasformava in un fungo grigio. Sembrava non badare alle parole dell’interlocutore, aveva gli occhi semichiusi e un’espressione assorta”. Non vuole denaro perché gli piace risolvere gli enigmi senza bisogno di un compenso. Nel complesso una figura piuttosto scialba (seppure con il sorriso stampato sulle labbra).
Non so se sia successo anche a voi. Qualche volta attira più il nome dell’autore che il titolo del libro. La vita di Edgar Wallace mi ha sempre incuriosito. Soprattutto per un fatto. Scriveva, scriveva, scriveva. Guadagnava, guadagnava, guadagnava. Sperperava, sperperava, sperperava. Ancora oggi non si sa di preciso il numero di commedie, romanzi e racconti che abbia scritto. All’apice del successo gli fruttavano grosso modo sui 250.000 (duecentocinquantamila!) dollari all’anno. Una bella cifretta anche al momento. Nonostante questo ai suoi eredi lasciò un debito di centoquarantamila sterline! Immaginatevi per un attimo la loro faccia davanti al notaio…Ma si ripresero ben presto con i diritti di autore che arrivavano a valanga.
Come ho scritto recentemente “Una delle ragioni che mi spingono ad acquistare un libro è, talvolta, la “lotta” disperata con un autore di successo. Soprattutto se si tratta di un classico, cioè di uno scrittore che ha avuto una parte più o meno rilevante nella storia del romanzo poliziesco. Per qualche motivo non mi piace ed io continuo a leggerlo, cocciuto, per vedere se riesco in qualche modo a farmelo piacere. E’ un po’ quello che mi succede con Edgar Wallace. Non mi vuole andar giù ma io non demordo” (testone!).
Sua creatura Mason, l’ispettore capo di Scotland Yard “ un uomo calvo, dagli occhi vivacissimi e dalla voce profonda, melliflua”, volto rotondo, pesante e assorto. Quando rimugina sembra dimenticarsi di ciò che gli sta intorno. Abile negli interrogatori “Un alone di leggenda circondava Mason. Era davvero un uomo cordiale e sotto l’influsso della sua aria bonaria e comprensiva molti criminali, per una malintesa fiducia, gli avevano detto più di quanto avrebbero voluto, cosa di cui si erano amaramente pentiti quando si erano trovati di fronte ai giurati e avevano udito le loro confidenze sfruttate con effetti per loro disastrosi”. Insomma non c’è da fidarsi troppo. Se si passa il segno sa essere diretto, deciso e anche offensivo. Buon conoscitore di romanzi polizieschi se la prende con le storie costruite in ambienti del tutto inverosimili (troppo lusso!), “Il signor Mason scosse il capo, si grattò una guancia e chiuse il libro per ritornare al suo delitto della serata, allo squallore di Tidal Basin, con i suoi vicoli fangosi, le catapecchie di un piano, dove tre famiglie vivevano in uno spazio che sarebbe stato addirittura inadeguato per la stanza da bagno di un appartamento di Park Lane”. Duro con i sottoposti che commettono un errore e che non resistono alle fatiche lavoro “Lei è un poliziotto. Non sono ancora ventiquattr’ore che è sveglio e lo rimarrà di certo per altre ventiquattro”. Ma sa anche aiutarli quando se lo meritano. Non ha problemi di sonno, dorme dappertutto e a qualsiasi ora (beato lui). Conosce a memoria i regolamenti, per eluderli in caso di necessità. Stimato “Mason non è cattivo. E’ uno degli uomini migliori della polizia e uno dei più intelligenti”.
Spesso sembra quasi fare da specchio a ciò che sta avvenendo. In breve sorride, annuisce, annuisce più volte, annuisce energicamente, oppure fischietta, grugnisce, sospira, non risponde, spalanca gli occhi, guarda divertito, scuote il capo, fa un gesto di impazienza, ha il volto grave, è nervoso e irritato, si alza in fretta, balza in piedi, mette le mani nelle tasche, fa tentennare le monete, infila il mignolo nell’orecchio e lo agita violentemente oppure i pollici nel panciotto, misura la stanza a lunghi passi e così via.
Tutto ruota intorno alla sua persona ma la sensazione che mi è rimasta è quella di qualcosa di sbozzato, di non finito. Come succede spesso per questo (troppo) prolifico scrittore (fissato!).
Veniamo a Thomas Kyd. In realtà l’autore si chiamava Alfred Bennett Harbage, uno dei più importanti studiosi di Shakespeare (almeno ai suoi tempi), che scelse come pseudonimo in omaggio ad un famoso drammaturgo inglese della seconda metà del cinquecento.
Con lui incontriamo il tenente Phelan. Bravo e fortunato, ex pugile un po’ rozzo, a disagio negli ambienti colti e intellettuali. Fuma sigarette e all’occorrenza anche il sigaro. Affascinato dalle belle signorine (da giovincello si era innamorato di una cavallerizza) con un caratterino che te lo raccomando: sbuffa, digrigna i denti, impreca, si irrita, esplode, non ha voglia di scherzare, risponde bruscamente. Talvolta passa anche alle vie di fatto con qualche ceffone ben assestato.
Le prime fasi di un caso gli ricordano la pesca d’altura praticata con canne lunghissime. Lanciare la lenza è un po’ come incontrare gente, fare domande in giro, leggere lettere ecc…, però occorre sapere interpretare bene i segnali della lenza stessa. Sa giocare a scacchi ma lo considera un gioco “pretenzioso” (O Ciccio!). Ha imparato dal suo capo Cleveland Jones più preparato di lui. Phelan comunque gioca d’istinto e sa metterlo in difficoltà. Ancora una volta, come in altri libri, i pedoni sono chiamati pedine (orrore!). Gioca anche a biliardo. In un momento di crisi “Perché diavolo ho abbandonato il ring!”. L’arguzia non è il suo forte e quando fa una battuta brillante si riempie di orgoglio. Senza infamia e senza lode (più senza lode).
Christianna Brand ( in realtà il cognome vero è Milne ) ne ha provati di lavori! “Governante, commessa, ballerina, modella, segretaria, insegnante di danza, standista e decoratrice d’interni”. Nata nel 1907 in Malesia, poi trasferita in India e infine in Inghilterra. Mentre è commessa in un negozio scrive un giallo in cui fa uccidere una compagna di lavoro che la tormenta. La vicenda viene ripresa dopo il matrimonio del 1939 e pubblicata nel 1941 con il titolo Death in High Heels (La morte ha i tacchi alti), seguita da un altro romanzo in cui compare per la prima volta l’ispettore Cockrill della polizia del Kent. Di questa autrice si ricorda soprattutto Delitto in bianco del 1944 dove la vittima viene uccisa sul tavolo di una sala operatoria davanti agli occhi di tutti. Interessante anche la trilogia di Tata Matilda, una tata, appunto, che si serve della magia per tenere buoni i bambini che le sono affidati. Muore a Londra nel 1988. Un pezzo grosso del mystery se il famoso critico Anthony Boucher la inserisce tra scrittori come la Christie, Carr ed Ellery Queen. Era una donna “interessante ed arguta”, piena di spirito e di umorismo, capace di “battute fulminee ed apologhi spiritosissimi”.
Dunque Cockrill “piccolo, bruno e con gli occhi acuti, un piccolo vecchio passero insignificante adorno di un panama bianco dal sorprendente candore, si trovò ben presto, come un passero, al centro dell’interesse e dell’attività generale, saltellando e sfrecciando qua e là, alla ricerca di briciole d’informazione”. Piccolo e con i capelli “biondi e ricciuti”, un passerotto che, però, sa farsi valere “Le supposizioni le faccio io”, dice bruscamente. Inarca Il sopracciglio, risponde burbero o acido. Acuto ed intelligente, fuma in continuazione sigarette che si prepara da solo. Conseguenza dita gialle di nicotina. E non evita di gettare mozziconi e cenere per terra (un po’ di educazione eh…). Tiene sempre una scatola di tabacco ammaccata nelle tasche sformate della giacca di flanella grigia. Dotato di una bella dialettica e di una “lingua caustica della quale non esitava a servirsene”. Cerca di far parlare i sospettati per cogliere qualche passo falso “L’ispettore Cockrill era un vecchio maestro nell’arte di alimentare le fiamme dei tizzoni dell’irritazione nervosa, di dare nuovo vigore alle braci delle forti emozioni, della tensione e del riserbo”. Pone brusche domande e ascolta gli altri di nascosto (così non si fa…). Insomma si intrufola dappertutto con una velocità ed agilità proprie di un passerotto. Anche se i passerotti non fumano. Simpatico.
Di Anthony Wynne, pseudonimo di Robert McNair Wilson, ricordo il dottor Eustace Hailey, medico psichiatra e investigatore per hobby che vive a Londra al n°22 di Harley Street . Primo particolare fiuta prese di tabacco e fuma la pipa. Viso largo, gentile, corporatura robusta. Soprannominato “il gigante di Harley Streeet” per la sua stazza sembra distratto ed invece è un acuto osservatore . Porta gli occhiali ma più spesso il monocolo, ama la musica di Bach e i dipinti di Holbein . Per lui è soprattutto la società che crea il criminale (allora oggi…). Temperamento tranquillo “Il dottor Hailey si addormentò nell’angolo della carrozza e non si svegliò fino a quando il convoglio non raggiunse Newcastle”. Spesso rimugina sui problemi di un delitto “Ma allora come si spiegava la sabbia uniforme , senza la minima orma? Come aveva fatto l’uomo a raggiungere il posto in cui era morto? Come lo aveva avvicinato il suo assassino? Com’era riuscito a fuggire dopo averlo ucciso?”, tanto per portare un esempio. Ha trascorso gran parte della sua gioventù sulle barche e conosce i segreti della navigazione, inoltre ha anche appreso l’arte di soccorrere in mare le persone da studente. Forte e robusto talvolta si lascia prendere dal panico “Un terrore improvviso e devastante lo sopraffece. Il suo nemico non gli avrebbe permesso di sfuggire, questa volta”, oppure “Il silenzio lo atterrì persino più di quanto non lo avesse spaventato lo spruzzo” e “Non aveva paura, ma la totale solitudine dell’isola gli gelava l’animo e rendeva quasi bruciante il bisogno di compagnia”. Al momento giusto sa lottare e rischiare la vita per gli amici. Suo gesto caratteristico passarsi la mano sulla fronte. Alcuni suoi giudizi di varia natura: chi crede nella stregoneria non è pazzo, parte solo da una premessa sbagliata; la gente che è ossessionata dalla vendetta vuole vivere per poterne essere testimone; perfino sulle banche “Le banche mi spaventano sempre- disse- i banchieri sono come i poliziotti: ci si sente al sicuro solo quando si parla con loro”. Io parlo, talvolta, con i bancari (che è un’altra cosa) ma mica mi sento tanto sicuro…
Di Rufus King presento il tenente Valcour, un signore di mezza età di origini franco-canadesi, distinto, raffinato, colto, quello che oggi chiameremmo un intellettuale (ci ricorda Philo Vance). “Valcour era un uomo di mezz’età con lineamenti non particolarmente attraenti ma non privi di distinzione. Indossava un elegante vestito di tweed e non fumava un sigaro”. Ha studiato alla McGill University, acuto osservatore ( occhi che al momento topico si trasformano come quelli di un predatore) accumula gli indizi in un compartimento della memoria, per tirarli fuori al momento opportuno. Tormentato dalle “assurdità” viene considerato un po’ “matto” dai suoi compagni di lavoro. Il perché della scelta di questo mestiere lo dice lui stesso “Un caso di nascita, o di influenza dell’ambiente. Solo gli uomini di genio sfuggono a queste due fatalità. I miei genitori emigrati dalla Francia, andarono a stabilirsi in Canada dove mio padre si fece un nome nella mia stessa professione”. Critico verso i metodi di indagine degli uomini della centrale perché lavorano “ in modo troppo metodico per concedersi di seguire interessanti prospettive o prendere sentieri secondari che potevano portare a fertilissimi campi”. Rileva inoltre una certa trascuratezza nelle indagini. Autocontrollo eccezionale, sia nel rispondere che nel reagire a eventuali aggressioni. Qualche volta invidia quei “colleghi più rigorosi che limitavano le loro ricerche al confortevole campo dei crudi, freddi fatti…”. E si dà pure dell’imbecille per le sue interminabili indagini sull’animo delle persone. Ogni tanto avverte intorno a sé un oscuro pericolo, una minaccia incombente. Un uomo tranquillo e sereno senza tanti grilli per la testa, provvisto di una certa ironia, in un momento della storia del romanzo poliziesco in cui ci si dà parecchie arie. Interessante.
Margery Allingham e dunque Albert Campion. Questo strampalato personaggio (lasciatemelo dire) nasce dalla penna della scrittrice inglese nel 1929 con “Crime at Black Dudley”. Praticamente un intrallazzatore un po’ pazzoide che cerca di sopravvivere con ogni mezzo. Anche illecito senza esagerare. Inoffensivo e stupidotto. Un bischero, detto dalle mie parti. A prima vista che in realtà dietro l’apparente imbranatura nasconde un intelletto coi fiocchi. Avendo, tra l’altro, studiato a Cambridge e provenendo da una famiglia aristocratica. A confondere le acque il suo metro e ottanta, i capelli color stoppa, gli occhi celesti dietro le lenti cerchiate di tartaruga che lo fanno apparire un po’ tonto. Un ricalco, per certi versi, di Lord Peter Wimsey della Dorothy L. Sayers verso la quale si dirigeva l’interesse dell’esordiente Allingham. Ho detto per certi versi che Campion non ha niente di carismatico, né affascina con l’eloquio come il pupillo della più matura scrittrice inglese.
Con il passare degli anni (cioè dei romanzi a lui dedicati) il nostro Campion perde “quel fascino burlesco degli esordi” (Luca Conti), mette la testa a posto e vive con questo Lugg (il nome per intero è troppo difficile) “un magnifico miscuglio di ingegnosità e di coraggio fuori luogo” con “l’aspetto di un soldataccio travestito da borghese”. Anche lui con trascorsi poco nobili (ex scassinatore), piazzandosi proprio sopra ad una stazione di polizia nei pressi di Piccadilly Lane, in modo da offrire i suoi servigi come consulente a Scotland Yard. E ci riesce piuttosto bene (il furbetto).

Articolo di Fabio Lotti

1 commento:

Anonimo ha detto...

Devo dire la verità. Mi aspettavo qualche commento, critica compresa naturalmente, soprattutto da parte di coloro con i quali ho instaurato un bel rapporto e mi permetto pure di scherzare, come Marco, Martina, Cristina, Stefania ecc…Beh, però, ripensandoci il silenzio è una critica bella e buona. E allora prendo e porto a casa.
Un plauso, come al solito, ad Enzo per le icone sempre molto efficaci.
Fabio