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martedì 30 marzo 2010

Intervista a Paola Barbato

 

Corpi Freddi: In questo romanzo, come hai dichiarato sul blog che hai dedicato al libro, hai posto l'attenzione su chi rimane, non sulla vittima né sull'omicida. Hai messo a fuoco la figura del sopravvissuto, di un padre a cui è stato ucciso il figlio, di una moglie a cui è stato tolto brutalmente il marito e così via. Il terzo punto di vista, quello di "chi rimane vivo,rimane in attesa, chi rimane e combatte". Gente che soffre e aspetta giustizia in silenzio. Ma fino a quando?

Paola Barbato: Non posso rispondere in maniera corretta, ho avuto la fortuna immensa, finora, di non dover provare sulla mia pelle un dolore simile,Ma ho visto persone che aspettano, che non si arrendono, che si attaccano con forza, quasi con disperazione, al ricordo di chi è stato loro strappato. E viceversa ho visto persone allontanare la mente il più possibile, voltare pagina (o almeno provarci), voler sopravvivere al punto da stravolgere se stesse. L'attesa della giustizia può durare una vita intera oppure essere abbandonata dopo un tempo brevissimo, come se non importasse.

CF: In Italia di circa 600 omicidi commessi in un anno e 200 di questi rimangono irrisolti. Nel romanzo è ben sottolineata la completa sfiducia di Antonio Lavezzi nelle forze dell'ordine (in particolar modo per i Ris di Parma) che non sono riuscite a dare una spiegazione alla tragedia che ha colpito la sua famiglia e un nome a chi l'ha provocata. L'opinione pubblica è sempre più sfiduciata di fronte all'imperversare della violenza e alle difficoltà che s'incontrano per arginarla. La domanda che ti pongo è questa: c' è speranza per gli esseri umani o vista la prevalenza del Male sul Bene neghiamo all'uomo ogni possibilità di progresso e miglioramento? Insomma ottimista o pessimista?

PB: Scientificamente ottimista. Ciò che non potrà la morale lo potrà la scienza. I telefilm americani ci hanno abituati troppo bene, ma non è detto che presto non si arrivi a poter aspirare dall'aria del luogo di un delitto particelle epiteliali dell'assassino. Il caso del delitto di via Poma, riaperto dopo anni grazie ai rilievi del DNA ne è una prova. Che poi la nostra società e l'essere umano, inteso come specie, stiano vertendo verso gli estremi più negativi non è in effetti una novità. Ci siamo cullati nell'idea che evolvendoci saremmi diventati "migliori", "superiori". Ma i periodi più illuminati dell'umanità, i momenti di grande avanzamento, non hanno coinciso esattamente con una maggiore "bontà". Orwell non ha mai avuto torto. Purtroppo.

CF: Mi è molto piaciuta l'immagine che hai dato di Antonio Lavezzi di un uomo “rinato monco”, mutilato di ciò che aveva sempre avuto, di una normalità. Sopravvissuto a un atto di violenza e a un dolore per molti insopportabile, Antonio prova a richiudere gli occhi, a installare il pilota automatico che gli consenta di mantenere la rotta, attraverso quella che tu chiami “la disciplina della negazione” . Puoi spiegarci meglio come nasce un personaggio come Antonio ?

PB: Nasce allontanandosi diametralmente da chi l'ha creato. Dare vita a un personaggio che non è altro che la nostra proiezione è facile. Difficile (e più onesto) è creare un personaggio credibile, coerente e nel contempo opposto a noi. Io Antonio non lo capisco, non condivido le sue scelte, ma so che di uomini come lui è pieno il mondo, che negare loro una voce è stupido e ottuso. Molti mi chiedono perchè non scrivo solo di ciò che ho toccato con mano. Ma così facendo non andrei da nessuna parte. E forse altrettanto varrebbe per chi mi legge.

CF: Giustizia e vendetta, dolore e rimorso, silenzio e rabbia. Sentimenti e comportamenti che entrano e ed escono in continuazione dalle pagine del libro. Cosa ti piacerebbe rimanesse di più al lettore di tutto quello che gli hai raccontato?

PB: Vorrei che a ciascuno rimanesse ciò che più lo ha turbato, toccato, fatto fermare durante la lettura. Le domande, se ci sono state. Sì, ecco, mi piacerebbe che rimanessero le domande.

CF: Non sveliamo niente d'importante se diciamo che una figura fondamentale del tuo ultimo romanzo è un cane. Perchè questa scelta e che rapporto hai in generale con gli animali?

PB: Penso che noi uomini siamo la sola specie così idiota da voler evolvere a tutti i costi. A volte mi figuro che lo abbiano già fatto tutte le altre specie e che noi siamo rimasti gli ultimi fessi a volerlo fare, mentre gli altri hanno lasciato perdere. La natura si accetta per quella che è. Hanno regole semplici, che tutti rispettano, rapporti chiari, scelte precise. Cioò che vede il cane è l'essenza della realtà. Alla fine lui vede e vive ciò che E', senza interpretazioni, senza attribuire significati strani alle cose, senza voler dare una spiegazione a tutto. La voce del cane è la voce dell'oggettività. La natura è oggettiva. E per questo è da sempre la peggior nemica dell'uomo.

CF: In un romanzo dove, per ovvi motivi, ogni riferimento a persone, luoghi e cose è da intendersi puramente casuale, fai una citazione omaggio precisa alla scrittrice Barbara Alberti e al suo libro “Povera bambina”. Perchè e quali autori sono stati importanti nella tua vita?

PB: Non ho autori di riferimento, leggo in maniera assolutamente sparsa e casuale. Ho amato King e Vargas Llosa, Benni e Pennac, e il libro di Barbara Alberti (splendido e ormai introvabile) è uno di quelli che mi hanno insegnato che non c'è mai un solo punto di vista, le cose si possono sempre vedere da almeno due angolazioni. Devo qualcosa a quel libro, e per questo l'ho citato.

CF: Ma è così vero che nella provincia veneta dove vive Antonio Lavezzi si possono incontrare solo due tipi di donne: le donne borsetta ( metà coccodrillo e meta donna) e la donne spaccacoglioni (metà martello e metà donna) come dice un tuo personaggio? (i mostri descritti nelle parentesi sono mie personali visioni)

PB: E' un teorema che ho sentito esporre da almeno tre uomini radicalmente veneti. Questo è il pensiero che molti di loro hanno. Io l'ho solo riportato. Ma c'è chi lo pensa. Oh, se c'è chi lo pensa...

CF: Ultima domanda: so che sei molto attiva nel sociale e che sei presidente dell'Associazione "Mauro Emolo" ONLUS che si occupa di persone affette da una malattia neurodegenerativa chiamata Corea di Huntington, vuoi parlarcene?

PB: Posso rimandare al sito www.coreadihuntington.it ma so per certo, ormai, che chi non ne viene colpito in maniera diretta o indiretta, difficilmente riesce a valicare le parole grosse che questa malattia si porta dietro, a partire dal nome. E' una parte importante della mia vita, a cui dono un pezzo di me stessa. E' una malattia che mi ha rubato degli affetti, e anche se sono infinitamente meno di Davide contro Golia, sto cercando di combatterla con le poche armi che ho. I miei libri, il cui ricavato viene devoluto in parte alla ricerca, sono una di queste.


Intervista di Lofi

3 commenti:

IL KILLER MANTOVANO ha detto...

Che bella intervista con ottimi spunti di riflessione.
Paola ha una sensibilità che mi ha sempre colpito e affascinato.
Per quel che mi riguarda questo mese di aprile sarà dedicato totalmente ai romanzi della scrittrice vista la prox calata mantovana.

Martina S. ha detto...

Della Barbato avevo letto solo Bilico. Dopo quest'intervista mi incuriosisce pure "Il filo rosso".

Frankie Machine ha detto...

Ottima occasione per conoscere il mondo di una scrittrice di crime-fiction, è bello che ne sia invece uscito il ritratto più umano e personale, sapendo che anche dall'altra parte si soffre e si combatte come tutti. Lofi magico nel cogliere questi aspetti.